Stavo sul sellino con la stessa disinvoltura con cui gli altri si accomodano su una poltrona, e ormai riuscivo a mantenere comodamente quella posizione per dodici ore o più. Ero molto dimagrito, pesavo quasi quattordici chili di meno rispetto alla partenza.
Erano passati quatto anni.
Il mio organismo, però, funzionava meglio che mai, tranne l'occhio destro: era diventato meno efficiente dopo l'incidente a Penang. Continuavo a fumare sigarette, e continuavo a desiderare di smettere.
Sulla moto avevo caricato di tutto: riso dell'Iran, uva passa e more essicate dell'Afghanistan, tè dell'Assam, spezie per il curry di Calcutta, halvà turchi, e un po' di salsa di soia di Penang.
In una bottiglia di polietilene con il tapop che si avvitava comprata in un negozio a Kathmandu c'era il resto dell'olio di semi di sesamo che avevo comprato a Boddhgaya. Il riso e l'uva passa erano in scatole di plastica del guatemala. Avevo acquistato una teiera alle Victoria Falls, e i piatti smaltati erano "made in China" e li avevo ereditati da Bruno. Una scatola di foglie di hennè del Sudan, una fiala di acqua di rose di Peshawar e alcuni ornamenti d'argento di Ootacamund erano tutti infilati in una ciotola birmana laccata, che a sua volta era nel samovar russo di Kabul.
Le borse di pelle e la copertura del sellino erano argentini. La tenda e il sacco a pelo erano ancora quelli di Londra ma avevo fatto fare una nuova imbottitura al sacco a pelo a San Francisco. Possedevo una coperta del Perà e un'amaca del Brasile. Portavo ancora la collana d'argento di Lulù e un braccialetto fatto con i peli di elefante del Kenia. La canna da pesca australiana aveva occupato il posto della spada del Cairo, e un ombrello tailandese sostituiva quello che avevo perso in Argentina. Più prezioso di tutti era sicuramente un tappeto kashmiro, anche se era difficle stabilire a cosa tenessi di più.
Attraversai Lione e mi tenni lontano dall'autostrada, attraverso il Rodano a Saint-Esprit e dirigendomi verso Nimes. Continuavo a visionare mentalmente quello spezzone di film: il viale, i platani, il sole che baluginava tra i tronchi e le foglie. Entro poche ore, entro pochi minuti il film si sarebbe confuso con la realtà. Avrei risalito quel viale e, con quel singolo gesto, avrei suggellato per sempre i quattro anni più ricchi della mia vita.
Ted Simon, I viaggi di Jupiter, 1978
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